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a.d. VIII. IDUS MARTIAS DIES
MULIERIS |
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SULPICIA poetessa dell'età augustea Infine
è giunto l’amore, e sarebbe per me onta maggiore
celarlo che renderlo noto a qualcuno. Ecco,
invocata dalle mie Camene,Venere citerèa ha
voluto condurlo a me e deporlo nel mio seno. Venere
ha mantenuto le promesse: narri le mie gioie colui
che si dice non le abbia mai conosciute. Non
vorrei affidare le mie parole a tavolette sigillate, affinché
nessuno le conosca prima del mio amante. Ma
il peccato mi è dolce, e disdegno atteggiare il viso per godere fama di
virtù. lSi
dirà che fui d’un uomo degno di me, io degna di lui. (Corpus
Tibullianum, 111,13; trad. L.
Canali)
Sai
che il triste pensiero di quel viaggio è svanito dall’anima della tua
fanciulla? Ora
le è consentito di essere a Roma nel suo giorno natale. Celebriamo
tutti insieme questo compleanno che
forse ti giunge quale più non speravi. [Corpus
Tibullianum, 111,15; trad. L. Canali) Che
io possa non essere più, o mia luce, la tua ardente passione, come
mi sembra di essere stata in questi ultimi giorni, se
in tutti gli anni della giovinezza ho commesso, stolta, qualcosa
di cui mi confessi maggiormente pentita che
dell’averti lasciato solo nella scorsa notte, desiaerando
tenerti celato tutto il mio ardore. (Corpus
Tibullianum, III, 18; trad. L. Canali)
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Ecco
un compleanno sgradito che dovrò trascorrere tristemente senza
il mio Cerinto in una tediosa campagna. Che
cosa v’è di più dolce della città? O forse si convengono a una
fanciulla un
casolare e il gelido fiume che scorre nell’agro aretino? Férmati
alfine, o Messalla, che troppo ti preoccupi di me; spesso,
o mio congiunto, i viaggi non sono opportuni. Anche
se tu non permetti che agisca secondo la mia volontà, pur
condotta via, qui lascio l’anima e i sensi. (Corpus
Tibullianum, 111,14; trad. L.
Canali) Non
senti, o Cerinto, un’affettuosa premura per la tua fanciulla, poiché
la febbre tormenta ora le mie membra stremate? Ah
non bramerei certo di guarire del mio triste morbo, se
pensassi che non lo desideri anche tu allo stesso modo. A
che mi gioverebbe vincere la malattia, se tu con
cuore indifferente puoi sopportare il mio male? Corpus
Tibullianum, 111,17; trad. L. Canali)
A cura di Clelia De Vecchi |